Il fuoco della rivolta che aveva infiammato l’autunno latinoamericano non si è spento con l’avvento della pandemia. Nonostante le misure contenitive, l’obbligo di restare a casa, i coprifuoco e la militarizzazione dei territori, nei giorni scorsi in molte città del continente, dai sobborghi di Santiago in Cile a El Alto in Bolivia o a Quito in Ecuador, a piccoli o grandi gruppi i cittadini sono scesi in strada a manifestare contro i propri governi. Sono le prime espressioni di protesta a pandemia ancora in corso, piccole scintille che cercano di riaccendere il fuoco della rivolta per trasformare la sofferenza di questi mesi in qualcosa di concreto per superare l’emergenza e costruire un futuro con più diritti e dignità.
Cile, il dramma dei barrios senza cibo.
In Cile le proteste non si sono mai fermate del tutto. Anche in questi mesi complicati, molti attivisti si sono riversati in piccoli gruppi in una Plaza de la Dignidad “ripulita” dal governo per denunciare l’operato disastroso del governo di fronte a questa emergenza, ricevendo comunque la solita “razione” di repressione. La decisione del governo di rinviare ad ottobre il referendum per la nuova costituzione, ha mantenuto alta l’attenzione della popolazione in lotta, preoccupata che con la scusa dell’emergenza il governo cerchi di ostacolare il processo di cambiamento in atto da ottobre. Il resto lo hanno fatto le misure disastrose prese dal governo per contenere la pandemia e sostenere la popolazione. Il Cile è infatti tra quei paesi dove in principio il problema è stato affrontato con superficialità. È utile ricordare a questo proposito, le parole del ministro della salute Mañalich che, per sostenere le blande misure di chiusura (soprattutto delle imprese) ha dichiarato: «Cosa succede se il virus muta e diventa una brava persona?». Il virus, naturalmente, non ha ascoltato il ministro e oggi il paese e uno tra i più colpiti del continente, con circa 50 mila contagi, le strutture sanitarie prossime al collasso e una curva purtroppo ancora in crescita.
Per molti cileni in questi giorni il dilemma è rischiare di contagiarsi o morire di fame perché i sussidi dello stato sono insufficienti, a fronte dell’impossibilità di andare a lavorare per guadagnarsi da vivere. Inoltre, come segnalato da Resumen, negli ultimi due mesi (marzo e aprile) sono stati licenziate oltre 500 mila persone e altre 750 mila hanno richiesto la liquidazione per poter sopravvivere all’emergenza. Fame che è stata alla base delle proteste di lunedì 18 maggio nella comuna di El Bosque, dove gli abitanti sono scesi in strada per manifestare contro il governo, colpevole di averli abbandonati senza alcun tipo di aiuto. Ancora una volta Piñera ha mostrato i muscoli e invece di inviare gli aiuti richiesti ha ben pensato di inviare i blindati a reprimere le legittime proteste. Nel giro di qualche ora la protesta si è estesa ad altri quartieri periferici della capitale Santiago. La protesta per il pane ha portato all’arresto di 15 manifestanti che ora rischiano pesanti condanne per aver infranto le leggi di emergenza. La giornata si è conclusa con l’ennesimo cacerolazo che ha coinvolto le principali città del paese, da Arica a Temuco.
Fonte #GlobalProject
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