Pubblichiamo questo lungo testo a firma del Network antagonista Torinese sul corteo di Milano contro la guerra in Siria del Nord e di quello che è successo al termine del corteo nel cosiddetto assedio, finto per quanto ci riguarda, al consolato turco e di come molte volte le piazze italiane siano piene di pompieri che non sappiano capire e leggere le piazze e la rabbia che c’è al loro interno impauriti nel proseguire verso obbiettivi ben visibili ma che ad alcuni attori politici gli piaccia proprio buttare acqua sul fuoco invece che avanzare verso obbiettivi politici ben visibili ma che si preferisce criticarli a parole ma non con i fatti quando proprio quando c’è l’occasione.
Condividiamo a pieno le parole scritte perché certe occasioni vanno ben capite e non invece farsele sfuggire come spesso accade sotto il naso.
Buona lettura
Scriviamo queste brevi note mossi dall’esigenza di mettere in fila qualche ragionamento sulla giornata di mobilitazione milanese di Sabato 26 Ottobre a Milano, contro la guerra in Siria e l’invasione turca del Rojava. Una giornata partecipata da migliaia di giovani sia milanesi che provenienti da molte città del Nord d’Italia, compresa la nostra. A chi ha preso parte al corteo partito da Palestro sarà stato facile rilevare la voglia genuina di molti di potersi esprimere contro la guerra genocida e di sterminio in Siria, e in sostegno ai combattenti curdi e al loro progetto di rivoluzione confederale. Insomma, un corteo vivo e attento, ma anche determinato, nelle intenzioni almeno, a “voler fare qualcosa” di concreto contro la guerra sporca di Erdogan in Siria del Nord, manifestando, a nostro avviso, una tensione a voler incidere su di un processo materiale uscendo dalla sola rappresentazione del dissenso, che spesso in maniera anche liturgica, caratterizza questo tipo di cortei. Da quando è cominciata la guerra della Turchia di Erdogan contro i popoli della Siria del Nord e contro la rivoluzione confederale, migliaia di persone in tutto il nostro paese si sono informate, si sono arrabbiate e hanno sentito la necessità di fare qualcosa per fermarla o almeno perché tutto ciò non succedesse nel silenzio. Sono queste emozioni umane che ci legano a quelle migliaia di persone e che hanno spinto noi e molti altri a impiegarsi nell’organizzazione di assemblee, manifestazioni e dibattiti. La suggestione che qualcosa di molto più ampio di noi si stia muovendo su questo terreno, ci arriva anche dall’aria respirata durante le assemblee di avvicinamento a questa manifestazione, sia a Torino che a Milano, dagli interventi e dalla composizione che vi ha preso parte; qualcosa che non si vedeva da un po’ di tempo e che ci parla di un protagonismo giovanile che inizia a risvegliarsi dal torpore degli ultimi anni. Il messaggio che, dalla rivoluzione confederale, ha raggiunto le migliaia di giovani che si stanno mobilitando, è che le ingiustizie non sono inevitabili, che un mondo diverso è possibile e che milioni di persone in Siria del Nord lo stanno costruendo a caro prezzo.
Il corteo, dopo un lungo percorso per le vie milanesi, e numerose “azioni simboliche”, è arrivato nei pressi dell’ambasciata turca milanese in via Canova, naturale obbiettivo e controparte di un corteo di questo tipo. Lo scenario che la testa del corteo si è trovata innanzi è stato quello di una fila di transenne messe a triangolo ben distanti dall’ambasciata e dai reparti delle forze dell’ordine di stanza alla sede consolare. Tra le transenne e la polizia la distanza era a dir poco siderale, e invitava qualunque mente di buon senso che fosse mossa dall’idea di avvicinarsi all’obbiettivo del corteo, a liberarsi della alquanto timida barriera, e riempire lo spazio che solo qualche timoroso giornalista o qualche incuriosito passante osava sfidare. Migliaia di persone si sono letteralmente ammassate sulle transenne e in molti hanno lanciato chili e chili di verdura e frutta marcia, sperando, infruttuosamente, di arrivare almeno vicino all’istituzione turca. Il magro risultato del lancio ortofrutticolo ha spinto molte persone e militanti a pensare che fosse sensato spostare le transenne e avvicinarsi ulteriormente. Primo per il palese fatto che la nobile e antica arte, proletaria e plebea, del lancio dell’ortaggio e del frutto marcescente, ha una ragion d’essere se colpisce un obbiettivo, edificio o persona bersaglio del popolare sdegno, e che lascia il tempo che trova se si realizza nel solo risultato di riempire, forse, le buche nell’asfalto; universale simbolo dello sprezzo di ogni giunta comunale verso i propri cittadini. Come spesso succede nei cortei e nelle mobilitazioni, il comune ragionare come corpo collettivo, spinge a passare dalle parole ai fatti e a dar forma a quel che comunemente molti chiamano “umore della piazza”. Nel concreto, spostare le transenne di lato della strada e avvicinarsi alla controparte. Infatti, in molti hanno spinto le transenne aprendosi un varco, del quale, tra l’altro, alcuni manifestanti si sono potuti fruttuosamente servire per guadagnare quella distanza in più, necessaria a far arrivare a bersaglio i fuochi d’artificio, portati per disturbare i diplomatici turchi e i gendarmi che ne proteggevano gli uffici. È qui che abbiamo assistito a comportamenti e azioni di alcune strutture militanti e singole soggettività della città meneghina, che ci hanno lasciato, e non solo a noi, ma a gran parte delle persone presenti, a dir poco basiti e abbastanza schifati. Qualche decina di attivisti (?) tra cui alcuni organizzatori della manifestazione, si sono mobilitati con veemenza, rancorosa rabbia e ingiustificata acredine, per impedire che le transenne potessero essere anche solo essere sfiorate dai manifestanti, arrivando a cercare di riposizionarle nel posto assegnato esse dalle forze dell’ordine. Spudoratamente sostituendosi ad un ruolo che solitamente viene interpretato dalle numerose persone stipendiate lautamente per farlo, in questo caso, presenti a poco più di un centinaio di metri dal corteo. Alcuni noti rappresentanti dei centri sociali milanesi, che la stampa tra l’altro non ha perso occasione per incensare, hanno offerto uno spettacolo indecente, ampliando i confini della definizione di “pompiere”, gergalmente usata nei cortei per definire chi si adopera per raffreddare gli animi. Questo ci spinge a chiederci come sia possibile che sedicenti militanti e attivisti si sostituiscano al ruolo della polizia in maniera così evidente, fuori da qualsiasi dimensione di buon senso, che talvolta può portare organizzatori di cortei e collettivi a trovare delle mediazioni con le forze dell’ordine, per garantire l’agibilità di una protesta o di una manifestazione. Ci chiediamo da dove nasca questa vera e propria fobia del poter agire nel concreto il rifiuto ad una guerra totale e reazionaria contro i popoli della Siria del Nord. Ci chiediamo come si possa pensare di limitare al mondo colorato e rassicurante delle “azioni simboliche”, fatte di cartoncino e carta pesta, la volontà e il senso di urgenza di migliaia di persone che in questo mese si mobilitano per il popolo curdo.
Crediamo che dietro ci sia la cronica e malata fobia del conflitto sociale che anima, purtroppo da lungo tempo, queste cosiddette “realtà militanti”, che preferiscono sempre una dimensione solo immaginata e a parole del conflitto sociale, e che per relegarlo a questa, si adoperano con uno sforzo e un impegno a dir poco “stupefacente”. Ma, cosa ancora più odiosa, rileviamo la mancanza di responsabilità politica nel far di tutto perché si limiti la crescita di una mobilitazione sociale e diffusa contro la guerra nel nostro paese, in un momento in cui per varie ragioni, milioni di italiani sono spinti ad interrogarsi sul senso dell’impegno e della complicità dello Stato italiano nella guerra siriana e nel sostegno alla dittatura di Erdogan. Questa triste commedia ci parla di quanto nel profondo certe “soggettività” cosiddette antagoniste siano solo animate dalla volontà di auto-riprodursi autisticamente, senza neanche mettere un pezzetto di cuore nella scommessa di un allargamento della lotta di classe nelle nostre città. La spudoratezza nel difendere gli interessi della Questura durante il corteo di Sabato 26 Ottobre, ci spinge a pensare che forse con essi coincidano anche le possibilità di riproduzione e agibilità politica di certe soggettività politiche. Se siamo legati a tutte le persone che in questi giorni vogliono sinceramente fare qualcosa per fermare la guerra, abbiamo dovuto constatare amaramente che invece siamo diversi da quei gruppi politici milanesi protagonisti di questo episodio. Ci viene da chiederci quale sia l’origine dei loro comportamenti, che potremmo definire bizzarri se non ci fossero di mezzo le vite di milioni di persone sotto le bombe. O forse dovremmo chiederci quale sia il senso della loro militanza politica e cosa li spinga a partecipare ad assemblee e manifestazioni.
Purtroppo riconosciamo nei comportamenti che abbiamo descritto sopra, la stessa ipocrisia della politica parlamentare. Che si tratti di guerra, patriarcato, diritti, salari o riforme l’importante è che si costruisca una possibilità di pubblicità e visibilità del proprio piccolo cortile. Viene il dubbio se, credano alle parole che usano pubblicamente, o se facciano parte piuttosto di una ritualità che si sentono intitolati a recitare per non perdere il loro posto nel panorama dei gruppi politici, unica ancora di salvezza rispetto a una vita povera di altre soddisfazioni. Evidenziamo tra le altre cose, il fatto che certi comportamenti possano forse servire ad imbonirsi una certa parte di istituzioni Comunali e partitiche dalle quali negli anni questi soggetti hanno attinto risorse e favori.
Condividiamo queste poche righe, non per sterile spirito polemico, ma perché crediamo sia fondamentale ragionare collettivamente su quale sia il ruolo di una soggettività antagonista e autonoma nella possibilità di aprire spazi di conflitto sociale nel nostro paese, soprattutto a partire dal rifiuto della guerra come estrema forma di governo e comando capitalista, che trova nelle metropoliti italiane come quella di Milano, la realizzazione delle forme di vita, nell’esclusione e nell’impoverimento umano, sociale ed economico, di gran parte delle persone che le abitano, imponendo un vivere comune fondato sull’individualismo, e la disgregazione dei rapporti sociali attraverso la loro messa a profitto e mercificazione. Crediamo che chi oggi si voglia battere per una comunità umana fuori dal rapporto di capitale debba interrogarsi profondamente cercando strategie comuni e conseguenti, che aprano spazi di liberazione, e non una sterile riproduzione di quello che siamo e dei ghetti sociali in cui la controparte ci vorrebbe rinchiusi.
NETWORK ANTAGONISTA TORINESE
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