Quando è apparsa la notizia di un altro volontario internazionale ucciso in Rojava la mia prima reazione è stata di confusione. L’articolo diceva che si trattava di un toscano e dava il nome di Lorenzo Orsetti. Lo stomaco mi si è stretto in una morsa, ma una voce dentro di me ripeteva che forse era qualcun altro, non il compagno che io avevo conosciuto soltanto come Orso Dellatullo o heval Tekoşer. Ho continuato testardamente a pensare che si trattasse di una bizzarra coincidenza, di un compagno Italiano di cui per qualche ragione non avevo mai sentito parlare. Finché non ho visto la foto del suo corpo straziato, oscenamente esibito dai jihadisti come un trofeo. Solo allora ho realizzato che un’altra storia era finita, che era tornato il momento del lutto e della rabbia, proprio adesso che la mente già volava alle celebrazioni per quando l’ultimo lembo di terra sarebbe stato strappato allo stato islamico.
Io ed Orso non ci conoscevamo bene. Durante tutta la mia permanenza in Rojava ci siamo incontrati soltanto una manciata di volte, quando per una ragione o per un’altra capitava nel campo in cui mi trovavo. Da quando ci avevano presentati era diventato un piacere sentire da lontano la sua voce. Una visita di Orso significava notizie da fuori del nostro piccolo mondo autosufficiente e un po’ claustrofobico, significava poter parlare in italiano – in toscano! Chi è stato anche solo un po’ lontano da casa, parlando un’altra lingua, sa quale piacere faccia incontrare qualcuno che è cresciuto a qualche chilometro da te. Chi in altre circostanze sarebbe stato un estraneo diventa immediatamente un amico e un confidente. E mentre noi eravamo quasi sempre incazzati, proni a dimenticare il quadro generale sommersi dalle piccole beghe che avvelenano la vita di ogni piccola comunità, io Orso l’ho sempre visto di buon umore, col morale alto come si dice, sempre industriandosi per essere mandato ovunque ci fosse da rendersi utile, sempre pronto a combattere. E questo Orso certamente era, un combattente. Mentre io e tanti altri internazionali, dopo qualche mese in Siria, sembravamo consumati, impazienti e pieni di rimostranze, Orso pareva uscito rafforzato da più di un anno di vita difficile e da tanti turni al fronte – incluso il tritacarne di Afrin – come attingesse la sua forza direttamente dal senso di quello che andava costruendo.
Politicamente Orso mi era sembrato uno di quegli Anarchici puri, non ideologici, che si sono avvicinati alla politica forti di una spontanea antipatia per il potere, per dispetto dei caporali grandi e piccoli che rendono la vita degli uomini e delle donne così miserabile.
Adesso che Orso è morto ci affanniamo tutti a fare qualcosa della sua memoria, del segno che ha lasciato. Al dolore per la perdita di un amico si aggiunge lo sdegno per chi prova ad usare il suo nome per promuovere la sua miserabile agenda. Ma quello per cui Orso è morto rimane là, per chi desidera vederlo. L’aspirazione ad un sistema più giusto, più umano. La realtà di un popolo che prende in mano il proprio destino, fa la propria storia, libera chi fino a ieri era, anche letteralmente, in catene.
La battaglia che Orso ha combattuto non è finita. Sotto ogni articolo pubblicato dai media turchi per dare la notizia della sua morte si affollano osceni commenti celebrativi, orribili lazzi e maledizioni. Al fascismo islamico e all’ultra-nazionalismo turco dà più fastidio un italiano morto di tutti i jihadisti che ancora combattono in nome di un incubo di dominio e di oppressione.
Mi conforta sapere che Orso era felice in Rojava. Quando, esausto ed scoraggiato, gli avevo detto che sarei tornato in Italia a breve lui mi aveva detto che gli sarebbe pesato troppo tornare in un paese così cupo, così arrabbiato. Credo che un giorno sarebbe tornato anche lui, ma sapeva di essere ancora utile là dove era.
Che la terra ti sia lieve heval. Adesso che non ci sei più tocca a noi raccogliere il testimone, essere all’altezza del prezzo che hai pagato.
[Agit Berneri]
Foto di Agit scattate in Rojava nel 2018
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