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Pensieri e riflessioni, estate 2018 di nuovo al fronte…

Non siamo ne degli eroi ne superiori a nessuno, non cerchiamo nessuna lode, sento la rivoluzione come un atto necessario per cambiare il mondo in cui viviamo. Se non ora, quando? Se non noi, chi?

Durante il periodo in cui mi trovavo al fronte, nelle interminabili giornate ad aspettare al sole sotto 50 gradi e un nemico che non arrivava mai, scrissi questo testo, una risposta ad una compagna, ad un’amica che mi aveva chiesto il perché fossi tornato in Siria.

Alcune riflessioni che in quella sera di attesa e di noia, scrissi per rispondere alle mille domande che mi giravano in testa, in quei giorni dove a distanza di mesi mi ritrovai al fronte di nuovo con un’arma in mano, in attesa dei miliziani dell’isis che fortunatamente quella notte non arrivarono.

Luglio 2018, messaggio ad un’amica…

Nel Nord della Siria, molti compagni e compagne hanno deciso di lanciare la propria vita oltre la morte, percorrendo quei sentieri rivoluzionari che purtroppo non sanno se riusciranno a concludere.
Molte volte pensi “io ho deciso di venire qua” come me altre centinaia di internazionali, invece molti altri combattenti dello Ypg/Ypj non l’hanno scelto, non avevano alternativa: essere sotterrati dalla guerra e dalle ingiustizie o lottare e resistere.
Alla fine noi siamo un piccolo granello di sabbia in questa guerra così vasta e distruttiva, un granello che serve per minare e sabotare il sistema autoritario/patriarcale in cui viviamo.
È vero, sono anche tante le domande che circolano in testa, molte volte ti chiedi “ne vale la pena? Perché sono qui? Cosa ci faccio? Cosa sto costruendo? Sto facendo la guerra, me ne sto rendendo conto? Io che ho sempre detestato la guerra e che amo la vita.”
“Chi sono io per scegliere se uno deve morire o no? Perché mi impongo con un’arma? Riuscirò ad uscire dalla guerra?”
Queste e molte altre domande me le pongo ogni giorno, ogni istante in cui rimango solo a pensare, a guardare le stelle o mentre faccio la guardia.
Quando abbiamo catturato un nemico, era stato ferito da tre pallottole alla gamba, ho provato pena per lui, mi dispiaceva che soffrisse per colpa nostra, alla fine quell’odio che ha verso di noi l’abbiamo creato forse anche noi, con le guerre portate avanti dagli stati in cui viviamo, con il nostro egoismo e il nostro colonialismo. Quella pena però un po mi ha sollevato il morale, mi ha fatto capire che non sono stato risucchiato dalla sete di vendetta e che non provo odio, anche se il suo esercito di fanatici ha ucciso i miei amici io non volevo ucciderlo, non sono come loro, io combatto contro la loro mentalità assassina, non contro la loro vita.
Ho scelto di unirmi alle Ypg dopo aver visto centinaia di bambini che mi saltavano addosso felici, ma allo stesso tempo tristi e distrutti dalla sofferenza, per quei bambini sfollati che si trovavano in un campo profughi in Turchia, che non avevano nemmeno da mangiare.
Io alla loro età giocavo per strada, andavo a scuola, loro invece intorno vedono morte e distruzione, è giusto? Assolutamente no, tutto ciò fa schifo e provo immensa tristezza, ma qui in Siria e in tutto in Medio Oriente, la guerra è quotidianità, quasi normalità.
Questa seconda volta nelle Ypg, a differenza dell’anno scorso, sto combattendo insieme agli arabi, sono di una generosità immensa, sono un popolo distrutto dalla guerra, che prima, a differenza mia o dei quadri del movimento, non facevano politica, q
uesta guerra ha distrutto centinaia di migliaia di vite umane, molti compagni e compagne e sopratutto amici sono morti ad Afrin per difendere delle idee.

Quell’ideale simile al mio, fatto di uguaglianza e libertà.
In molti mi hanno detto “perché combatti in Siria? Non è la tua guerra”
Credo che questa sia la guerra di tutti i rivoluzionari e le rivoluzionarie che lottano per la libertà e l’uguaglianza. Sono molte le contraddizioni, a volte dure da digerire, ma si lotta anche contro di loro; contro quelle contraddizioni che purtroppo in guerra, ma non solo, esistono e molte volte sono un duro peso da cui vorresti scappare e per cui vorresti essere da tutt’altra parte.
In Siria c’è una dura contrapposizione fra due sistemi, quello capitalista e quello anticapitalista, una guerra dura come non se ne vedevano da decenni, in cui non si intravede ancora la fine.
I morti saranno ancora tanti, troppi, lo so, perderò altri amici, avrò altro dolore da colmare, potrò ferirmi o addirittura morire, altre città saranno distrutte, migliaia saranno gli sfollati, la guerra purtroppo, si sa, porta morte e distruzione.
Sono consapevole che non vedrò la vittoria, ma nemmeno la sconfitta. Sto piantando semi che germoglieranno tra decine di anni.
I rivoluzionari della guerra civile spagnola dicevano “bisogna vincere la guerra al più presto, se no c’è il rischio che l’obbiettivo rivoluzionario passi in secondo piano e gli esseri umani vengono risucchiati dalla spirale di violenza che ogni guerra porta”.
Credo che questa frase sia assolutamente veritiera, bisogna sconfiggere il nemico, più velocemente possibile. Nella rivoluzione, la maggior parte del lavoro si fa prima su noi stessi, poi sui compagni e dopo sulla popolazione, non bisogna farsi risucchiare dalla spirale di violenza e vendetta che la guerra porta.
Se non distruggiamo la nostra mentalità capitalista e autoritaria, come possiamo pretendere di distruggere quella degli altri? Se non troviamo la chiave per aprire la nostra porta, non possiamo pretendere di trovare quella per aprire le porte degli altri.
In questa rivoluzione/guerra si porta avanti una forte autocritica personale e collettiva per cercare di migliorare la nostra azione rivoluzionaria.
Non siamo ne degli eroi, ne superiori a nessuno,  non cerchiamo nessuna lode, sento la rivoluzione come un atto necessario per cambiare il mondo in cui viviamo.
Se non ora, quando? Se non noi, chi?

Pensieri

Quando si combatte nelle Ypg, quando si liberano i villaggi o le città non importa se si spara, se combatti con le armi oppure no, molte volte succede che i villaggi o anche le cittadine vengano liberate senza sparare un colpo, non importa sparare ecc, è solo un mezzo di autodifesa, non importano i numeri di daesh uccisi, scontri a fuoco ecc. I numeri li lasciamo agli eserciti statali, quello che vale di più è entrare in un villaggio, vedere un popolo che si libera dalla tirannia, ti sostiene e ti sorride, della rivoluzione è questo ciò che conta, non gli scontri a fuoco avuti. Più si parla di guerra, di combattimenti, di armi, più si alimenta l’odio. Un’idea fatta di persone armate sempre pronte a sparare, osannare le armi, fa schifo. La guerra fa ancora più schifo, per questo è solo un mezzo di lotta e resistenza, non di propaganda. Parliamo della rivoluzione, delle comuni, della resistenza dei popoli, ricordando sempre i compagni e le compagne cadute, per far si che questa rivoluzione vada avanti.

 

La paura, una cosa che provi dentro, che arriva all’improvviso, non puoi saperlo prima, lo sai solo quando la senti. Tutti abbiamo paura di morire, di osare, paura per se, per gli altri, per chi come te ha rischiato o rischia.
Poi a volte sparisce e lì si ha paura di non aver più paura. Esistono avvenimenti che molte volte ti scacciano via la paura, altri che invece te la lasciano per un pò.
Le paure si scacciano solo osando, solo lì conosci te stesso, sei tu e le tue paure, nessun altro. Ma attenzione non si può vivere senza paure, lì si che si muore. Senza paura la morte si avvicina. Non esiste vita senza aver paura di perderla. Le paure ti fanno ragionare e molte volte riflettere. L’odio invece no. L’odio uccide solo, prima noi, poi gli altri.

Fine dell’operazione Al Dashisha, si ritorna a Shaddadi.

Il supporto della popolazione.

Nell’operazione per liberare la zona di Al Dashisha dai miliziani dell’isis, la popolazione locale sta dando un supporto primario ai combattenti delle Sdf. Senza il loro aiuto, colmare la fame, la sete e la stanchezza, dovute alle temperature che arrivano fino a 50 gradi e alla logistica del cibo che a volte arriva a volte no, sarebbe stato molto più difficile.
Appena giunti nei villaggi liberati, la popolazione civile ci accoglie sempre con chay e saluti di benvenuto, lasciando sempre una stanza, o una casa dove poterci riposare e fare i turni di guardia.
Subito dopo arrivano con materassi e coperte, sempre con il sorriso e con un’ospitalità che ci lascia quasi impressionati.
La mattina appena svegli, ci offrono l’immancabile chay e un’abbondante colazione.
Molte case, per non esser colpite dai mortai e per segnalare la non presenza di miliziani dell’isis espongono una bandiera bianca. Questo facilita il lavoro dei combattenti delle Sdf per non colpire le abitazioni dei civili.
Durante le pause nei villaggi, che possono durare dalle due ore a tre giorni il tempo passa tra turni di guardia, chiacchiere, chay e nel relazionarsi con la popolazione locale.
Certo, per noi internazionali ciò è difficile, non sapendo l’arabo, ma grazie a qualche combattente arabo che parla curdo e che ci traduce, si riesce a scambiare qualche parola.
I civili ci raccontano che in queste zone l’Isis non aveva una presenza fissa, ma a volte appariva facendo giri di ricognizione.
Con lo stato islamico i civili fumavano in casa, di nascosto, se venivano sorpresi gli veniva amputata la mano oppure se le donne non uscivano completamente coperte, era il marito ad essere punito.
Durante l’operazione sono stati veramente pochi gli sguardi di disgusto e rabbia verso di noi, certo siamo consapevoli che se l’Isis esiste ancora è perché purtroppo c’è un minimo supporto della popolazione.
Fortunatamente l’operazione è proseguita con pochissimi scontri diretti, questo non ci può che rendere felici, è questa la differenza tra noi combattenti delle Ypg e la mentalità militarista dei membri degli eserciti regolari, per noi l’importante è liberare la popolazione, non sparare e combattere.
Meno si combatte, piu si è felici.

Purtroppo in molti villaggi è difficile vedere la presenza di donne, sono poche quelle che escono di casa per salutarci, la mentalità patriarcale non si sconfigge in un giorno o quando si completa l’operazione, è dopo aver liberato un villaggio che inizia il lavoro più difficile, quello di trasmettere i valori della libertà e dell’uguaglianza.
La strada è ancora lunga e molto faticosa, la lotta non si concluderà quando l’Isis sarà sconfitto, ma proseguirà senza sosta, fino a quando il sistema capitalista e patriarcale non sarà sconfitto e tutti i popoli saranno liberi.
Silav u Rez Soresgeri. 

Paolo Pachino

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