I curdi non hanno mai nascosto la loro consapevolezza circa il ruolo strumentale della momentanea alleanza tattica con gli Stati Uniti; nel contesto della rivoluzione forse più isolata di sempre, i 2000 soldati americani presenti in #Siria del Nord (come prima di loro i russi ad #Afrin, fino all’accordo da loro sottoscritto con #Erdogan) erano utili come supporto logistico e soprattutto come deterrente rispetto alle ambizioni di Ankara. Mai nascosti attriti, mai scesi a compromessi rispetto al loro obiettivo. Le Forze democratiche siriane (che troppo spesso i media occidentali descrivono come “guidate/comandante dagli USA”) sono un esercito rivoluzionario, indipendente, multietnico e multireligioso, organizzato autonomamente a partire dalla esperienza delle #YPJ/#YPGcurdo-siriane e delle forze rivoluzionarie siriane socialiste e laiche, nate nel caos ribollente della guerra civile, in particolare di quelle fuoriuscite dal FSA (Free syrian army) al momento della sua svolta reazionaria e islamista. La loro strategia di lungo termine, così come le scelte in politica interna alla Federazione e all’amministrazione delle zone liberate, non sono mai state nascoste ed è davvero stupido (o in malafede) non considerare la situazione complessa e complessiva quando si parla del capitolo (importante, ma singolo) della collaborazione tra FSA e militari americani.
Erdogan è certamente più importante come alleato per gli USA rispetto ai curdi (anche se il Pentagono non è d’accordo con la Casa Bianca), ma bisogna anche considerare gli accordi di Ankara con #Assad e #Putin, dietro il conflitto di facciata, utile solo alle rispettive propagande interne. Piaccia o no, la Federazione della Siria del Nord, come altre rivoluzioni nella Storia, hanno dovuto compiere scelte dettate dal realismo e dai rapporti di forza; ciò che è però centrale sottolineare è che lo hanno saputo fare in modo “proattivo”, essendo comunque una piccola entità, avendo la capacità di utilizzare la propria centralità militare per ottenere il massimo senza cedere un centimetro su ciò che davvero sta a cuore a tutti noi e che riteniamo il più grande contributo storico e globale di quel processo abbiamo imparato a riconoscere dietro il nome di “Rojava”: non la resistenza militare, non il sangue e la guerra contro Daesh, ma il progetto politico che ha sostenuto tutto questo, paure e coraggio, fucili e sacrifici di donne e uomini, del Medio Oriente e di mezzo mondo. Il resto sono discorsi che qualcuno prima di noi ha definito “campisti” oppure che rifiutano il confronto tra il proprio modello mentale e la realtà concreta dell’attuale conflitto globale asimmetrico e permanente.
“Migliaia di persone sono morte per difendere l’ideologia della democrazia radicale, molte ho avuto l’onore di conoscerle.
I popoli del #Rojava ha vissuto questa rivoluzione e conosce meglio di noi ciò che questa lotta comporta. Non si può fare appello alla coscienza degli imperialisti, dei colonialisti, degli oppressori.
I martiri non sono morti per questo, sono morti combattendo contro di questo.
O libertà o libertà!”
#RojavaResiste
Rispondi