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L’internazionalismo delle donne contro il patriarcato mondiale

La lotta contro il patriarcato, sia organica e spontanea oppure militante e organizzata, costituisce una delle forme più antiche di resistenza. In quanto tale può vantare, al suo interno, alcune fra le più interessanti combinazioni fra esperienza e conoscenza, incarnando la lotta contro l’oppressione nelle sue forme più antiche e universali.

A partite dalle prime rivolte della storia, arrivando fino ai primi scioperi, proteste e movimenti organizzati, le donne che lottano hanno sempre agito nella consapevolezza che la propria resistenza sia vincolata ai problemi più ampi di ingiustizia e oppressione nella società. Che sia lotta contro il colonialismo, il dogma religioso, il militarismo, l’industrialismo, l’autorità statale o la modernità capitalista, storicamente i movimenti delle donne hanno fatto esperienza di differenti aspetti dell’oppressione, così come della necessità di lottare su diversi fronti.

Lo Stato e l’eliminazione delle donne

La divisone della società in rigide gerarchie, nello specifico a partire dalla centralizzazione del potere ideologico, economico e politico, ha implicato una perdita storica del luogo delle donne nella comunità. A mano a mano che i modi di vita basati nella solidarietà e la sussistenza furono rimpiazzati con sistemi di disciplina e controllo, le donne furono spinte ai margini della società e si videro obbligate a condurre vite subumane, dovendo sottostare ai termini imposti dagli uomini governatori. Eppure, a differenza di ciò che la narrazione patriarcale vuole farci credere, questo assoggettamento non ebbe luogo senza un’intrepida resistenza e una ribellione sorta dal basso.

La violenza coloniale, nello specifico, si incentrò sull’istituzione o consolidamento del controllo patriarcale sulle comunità che si volevano dominare. Stabilire una società “governabile” significava normalizzare la violenza e l’assoggettamento all’interno delle relazioni interpersonali più intime. Nei contesti coloniali, o più in generale all’interno delle comunità e delle classi maggiormente oppresse, quella domestica rappresenta l’unica sfera di controllo nelle mani dell’uomo sottomesso, che sembrerebbe capace di affermare la propria dignità e autorità solo all’interno della propria famiglia, versione in miniatura dello Stato o della colonia.

Durante i secoli si è sviluppata una concezione dell’amore e dell’affetto familiare che ne ha spezzato le radici di solidarietà e mutualità comunitaria, istituzionalizzando ancor di più l’idea che la violenza e la dominazione siano semplicemente parte della natura umana. Come hanno argomentato autrici come Silvia Federici e Maria Miles, l’imperialismo capitalista – con il suo nucleo intrinsecamente patriarcale – ha condotto alla distruzione di universi interi di forme di vita, solidarietà, economie e contributi alla storia, all’arte e alla vita pubblica delle donne: sia sotto forma di caccia alle streghe in Europa, o di avventure coloniali all’estero, o mediante la distruzione della natura ovunque nel mondo.

Nei tempi moderni, molte attiviste e ricercatrici femministe hanno criticato la relazione tra norme di genere oppressive e l’insorgere del nazionalismo. Facendo affidamento fondamentalmente sulle nozioni patriarcali di produzione, governo, parentela e sulle relative concezioni di vita e morte, il nazionalismo ricorre alla domesticazione delle donne per i propri fini. Questo schema si ripete nell’oscillazione globale attuale verso le destre, con i fascisti e i nazionalisti di estrema destra che, spesso, dichiarano di agire nell’interesse delle donne. Proteggere le donne dallo straniero, dopo tutto, continua a essere uno dei comportamenti conservatori più antichi per giustificare la guerra psicologica, culturale e fisica contro le donne stesse. Come risultato, i corpi e i comportamenti delle donne vengono strumentalizzati a favore degli interessi di un sistema mondiale capitalista sempre più reazionario.

Il colonialismo e il militarismo capitalista mirano precisamente a minare le sfere dell’economia comunitaria e dell’autonomia delle donne. Di conseguenza, le ondate epidemiche di violenza contro le donne hanno come obiettivo quello di distruggere tutto ciò che esisteva prima che le relazioni sociali capitaliste e i modi di produzione si alleassero. Non può risultare strano, quindi, che le donne, sentendo la dominazione capitalista e la violenza nella maniera più intensa e a tutti i livelli, spesso si trovino tra le file delle avanguardie del Sud Globale per lottare contro la distruzione capitalista delle proprie terre, acque e boschi.

 

Femminismo imperialista e socialismo patriarcale

Permettetemi di identificare altri due problemi rispetto ai quali le lotte radicali delle donne di oggi dovrebbero attivarsi.

Probabilmente il più antico fra i due è l’esclusione della liberazione delle donne attuata da gruppi e movimenti progressisti, socialisti, anticolonialisti e altri gruppi di sinistra. Storicamente, sebbene le donne abbiano preso parte a movimenti di liberazione di diverso tipo, le loro denunce sono state spesso messe da parte a favore di ciò che leader (generalmente uomini) identificavano come l’obiettivo principale. Questo, senza dubbio, non è qualcosa di intrinseco alle lotte per il socialismo o alle altre alternative al capitalismo. Piuttosto è un’evidenza di quanto profonda debba essere la lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento, per riuscire a ottenere un cambiamento reale.

I tratti autoritari delle esperienze storiche passate, basate nell’ossessione di concezioni come quelle di grande modernismo e statalismo, prese in prestito dall’ingegneria sociale, sono piuttosto in linea con le concettualizzazioni patriarcali della vita. Come molte storiografe femministe hanno segnalato, la classe ha significato sempre cose differenti per donne e uomini, in particolare perché i corpi delle donne e il lavoro non remunerato furono fatti propri e sottoposti a processo di mercantilizzazione dai sistemi dominanti in forme che naturalizzano profondamente questa natura di assoggettamento.

Di fronte ai risultati di sistemi femminicidi millenari, molti dei quali nemmeno figurano – tuttora – nelle pagine della storiografia ufficiale, combinati con la riproduzione quotidiana della dominazione patriarcale nella cultura egemonica, nelle relazioni intime e nella sfera apparentemente amorosa della famiglia, così come ai profondi traumi psicologici e alle condotte [maschiliste e patriarcali] interiorizzate, è evidente la necessità di rompere radicalmente con le aspettative sociali e culturali della femminilità passiva attraverso la presa di coscienza, l’azione politica e l’organizzazione autonoma.

Come dimostra il nostro movimento – la lotta delle donne nel Movimento di Liberazione Curdo -, senza una separazione totale dal patriarcato, senza una guerra contro la nostra auto-schiavizzazione interiorizzata, non possiamo svolgere il nostro ruolo storico nella lotta generale per la liberazione. E nemmeno possiamo trovare rifugio nelle sfere autonome delle donne senza incorrere nel rischio di separarci dalle preoccupazioni e dai problemi reali delle società e, quindi, del mondo che vogliamo rivoluzionare. In questo senso, la nostra lotta autonoma di donne si è trasformata nella garanzia del nostro popolo per democratizzare e liberare la nostra società e il mondo intero.

L’altra faccia di questa esperienza negativa dei movimenti delle donne nelle lotte più ampie per la liberazione si relaziona con il secondo e più recente problema con cui le lotte delle donne si scontrano: la de-radicalizzazione del femminismo attraverso ideologie liberali e sistemi di modernità capitalista. Ogni volta di più, i movimenti progressisti e le lotte che hanno il potenziale per lottare contro il potere si scontrano contro quello che Arundhati Roy chiama la “ONGzazzione della resistenza”. Uno dei principali strumenti per arginare e dominare la rivolta e l’ira delle donne è la delega della lotta alle organizzazioni della società civile e delle istituzioni di elites che, spesso, sono inevitabilmente separate dalle gente reale.

Non è un caso che in ogni paese che è stato invaso o occupato dagli stati occidentali che pretendono importare “libertà e democrazia”, ora alberghino una gran quantità di ONG per i diritti delle donne. Il fatto che la violenza contro le donne sia in aumento negli stessi paesi colonialisti aggressori dovrebbe essere sufficiente per questionare la funzione e l’obiettivo che queste organizzazioni svolgono nella giustificazione dell’impero. Le questioni che richiederebbero una radicale ristrutturazione dell’internazionale sistema oppressivo, oggi, si riducono a fenomeni marginali lasciati in mano alla politica della diversità corporativa e al comportamento individuale, normalizzando così l’accettazione da parte delle donne dei cambiamenti cosmetici, a spesa delle trasformazioni radicali.

Oggi si spera che le donne si sollevino in manifestazioni autoreferenziali e nelle modalità più evidenti di imperialismo e neoliberalismo, a partire dal concetto di “inclusività di genere” o “amabilità femminile”. Quest’appropriazione grottesca delle lotte delle donne e dell’uguaglianza di genere emerge in maniera evidente in un recente articolo del The Guardian, co-scritto dalla stella di Hollywood e ambasciatrice dell’ONU, Angelina Jolie, e dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nel quale si è resa pubblica la collaborazione per garantire che la NATO assolva “la responsabilità e l’opportunità di essere il protettore principale dei diritti delle donne”.

La mentalità imperialista che soggiace la logica della NATO, uno dei principali responsabili della violenza globale, dei genocidi, degli stupri non denunciati, dei femminicidi e della catastrofe ecologica, condurrà la lotta femminista addestrando il proprio personale per essere più “sensibile” ai diritti delle donne, il che è l’emblema della tragedia del femminismo liberale. Diversificare le istituzioni oppressive e riempire le proprie fila con persone di differenti età, razze, generi, orientamenti sessuali e credenze, è un intento di invisibilizzare le proprie basi tiranniche nonché uno degli attacchi ideologici più devastanti contro gli immaginari alternativi per un vita giusta e libera.

Tanto i conservatori di destra quanto quelli misogini e autoritari di sinistra, specialmente in Occidente, accusano sbrigativamente le “politiche di identità”, e la loro presunta fragilità, di essere i responsabili dei problemi sociali di oggi. Il termine “politica di identità”, d’altronde, fu coniato nel decennio del 1970 dal Combahee River Collective, un gruppo femminista nero che enfatizzava l’importanza dell’azione politica autonoma, dell’autorealizzazione, della coscienza della capacità di liberare se stesse/i e la società nei termini degli oppressi. Questa non fu una chiamata alla preoccupazione egocentrica per un’identità separata rispetto a questioni più ampie della società, ma piuttosto una formulazione di piani di azione basati nell’esperienza per lottare contro molti strati di oppressione.

Il problema di oggi non è la politica basata sull’identità ma la cooptazione, da parte del liberalismo, delle proprie radici radicali intersezionali e anticapitaliste, nell’intento di eliminarne. Come risultato, la maggior parte delle donne bianche, capi di stato, CEO e altre rappresentanti di un ordine borghese basato su sessismo e razzismo, vengono riconosciute come icone del femminismo contemporaneo da parte dei mezzi di comunicazione liberali, a scapito della militanza delle donne nelle strade; quelle che mettono a rischio la propria vita nella lotta contro gli stati di polizia, il militarismo e il capitalismo.

Incentrarsi nell’identità come valore in quanto tale, come l’ideologia liberale vorrebbe, fa incorrere nel rischio di cadere nell’abisso dell’individualismo liberale, nel quale possiamo creare santuari di spazi sicuri, ma nei quali, alla fine, ci trasformiamo – diretta o indirettamente – in complici del perpetuarsi di un sistema globale di ecocidio, razzismo, violenza patriarcale e militarismo imperialista.

 

L’internazionalismo significa azione diretta

Una delle principali tragedie delle ricerche alternative [al sistema] è, quindi, la delega di volontà individuale o collettiva a istanze esterne alle comunità in lotta: gli uomini, le ONG, lo Stato, la nazione, etc. Le crisi della democrazia liberale rappresentativa sono fortemente relazionate con la sua incapacità di mantenere le proprie promesse, ossia di rappresentare tutti i settori della società. Come i gruppi oppressi – particolarmente le donne – hanno sperimentato nel corso della storia, la liberazione non può arrendersi agli stessi sistemi che riproducono la violenza e l’assoggettamento. Di fronte a questi falsi binari con i quali si scontrano spesso le lotte delle donne, l’urgenza dell’internazionalismo emerge ancor più insistentemente.

Il cuore dell’internazionalismo è stato storicamente quello di prendere coscienza del fatto che, al di là di ordini preesistenti, le persone devono essere coscienti della sofferenza delle altre persone e vivere l’oppressione di una/o come l’oppressione di tutte/i. L’internazionalismo è un’estensione rivoluzionaria della coscienza di un essere umano come un tutto, basata nella capacità di vedere le connessioni fra differenti espressioni di oppressione. In questo senso l’internazionalismo deve necessariamente rifiutare qualsiasi forma di delega alle istituzioni dello stas quo attuale e deve ricorrere all’azione concreta e diretta.

Da più di cent’anni il mese di marzo è stato scelto dalle lavoratrici socialiste come il Giorno Internazionale delle Donne e delle loro lotte militanti. Un secolo dopo, marzo si è trasformato nel mese per commemorare e onorare le donne internazionaliste nella rivoluzione del Rojava. Nel marzo passato, due donne incredibili, Anna Campbell (Hêlîn Qerecox) – una rivoluzionaria antifascista d’Inghilterra – e Alina Sànchez (Lêgêrîn Ciya) – un’internazionalista socialista e medico dell’Argentina – persero la vita in Rojava nel corso della ricerca di una vita libera dal fascismo patriarcale e dalla modernità capitalista.

Tre anni prima, nel marzo 2015, una delle prime persone internazionaliste cadute martiri nell’intento di difendere la Rivoluzione in Rojava – la comunista nera tedescaIvana Hoffmann -, perse la vita nella guerra contro gli stupratori assassini fascisti dell’ISIS. Insieme con migliaia di curde/o, arabe/o, turcomanne/o, sirio cristiane/o, armene/o e altri/e compagne/i, queste tre donne, nello spirito dell’internazionalismo, non esistarono a rimanere sul fronte, contro la distruzione dei mondi di vita delle donne, da parte dei sistemi patriarcali. Al momento di scrivere queste parole, più di tre mesi dopo, il corpo di Anna giace ancora occultato sotto le macerie nel mezzo dell’occupazione coloniale e patriarcale dello stato turco, ad Afrin, in Rojava.

Nel cuore di queste donne, in nome della difesa dell’umanità, stava l’impegno di rendere più bella la vita attraverso la lotta permanente contro i sistemi e le mentalità fasciste. Nello spirito della rivoluzione alla quale si unirono, non adoperarono la propria femminilità in aree di liberazione che marginalizzano la lotta contro il patriarcato.

Sul finire dell’anno passato, donne curde, arabe, sirio cristiane e turcomanne, insieme a compagni internazionalisti, annunciarono la liberazione di Raqqa e dedicarono questo momento storico alla libertà di tutte le donne del mondo. Tra loro c’erano anche donne ezide, che si organizzarono in forma autonoma per vendicarsi degli stupratori dell’ISIS che, tre anni prima, avevano commesso un genocidio contro le loro comunità e avevano schiavizzato migliaia di donne.

Le lotte rivoluzionarie delle donne, a differenza delle appropriazioni liberali contemporanee del linguaggio femminista, hanno sempre incarnato lo spirito dell’internazionalismo nel prendere iniziativa contro fascismo e nazionalismo. Per mantenersi fedeli alla promessa di solidarietà, la politica internazionalista nella lotta contro le donne deve comprendere che l’oppressione può operare attraverso una moltitudine di modalità, per cui tanto la violenza come la resistenza non devono assomigliarsi da tutte le parti.

L’internazionalismo attuale necessita di reclamare azioni dirette per un cambiamento sistemico, senza dipendere dai poteri esterni – partito, governo, Stato – e dev’essere radicalmente democratico, antirazzista e antipatriarcale.

Fonte: Dilar Dirik / Roar Magazine ; Kurdistán América Latina: http://kurdistanamericalatina.org/el-internacionalismo-de-las-mujeres-contra-el-patriarcado-mundial/

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